Indietro home

Samtosa, l’appagamento

Il primo febbraio 2025 a Milano conduco un incontro yoga su samtosa, l’essere contenti, un precetto del raja yoga che invita a coltivare uno stato d’animo di pienezza e apertura, che è ben diverso dall’accontentarsi. Su questo tema è uscito un numero di Percorsi Yoga, la rivista della YANI, contenente un mio contributo dove ho voluto ricordare testi letterari che esprimono samtosa.

Incollo qui quel contributo: Nella chiara luce della presenza mentale

Anni fa, apprezzando il romanzo Addio a Berlino di Christopher Isherwood (da cui è stato tratto il film Cabaret) decisi di leggere altri libri dell’autore.  Proseguii dunque con La violetta del Prater rimanendo profondamente colpitada una delle scene finali del libro dove i due protagonisti, un giovane scrittore e un navigato regista ebreo/austriaco, tornano a casa, di notte, a Londra.

Ecco la scena, la traduzione è mia. 

Era quell’ora della notte in cui i lampioni sembrano splendere con una innaturale, remota brillantezza, come pianeti dove non c’è alcuna vita. King’s Road era bagnata e buia, deserta come la luna. Non apparteneva al re, o a qualsiasi altro essere umano. Le case avevano serrato le loro porte contro tutti gli stranieri, erano immobili, aspettando l’alba, le cattive notizie e il latte. Non c’era nessuno in giro. Neanche un poliziotto. Neppure un gatto.

Era quell’ora della notte nella quale l’ego degli uomini si assopisce. Il senso di identità, di possesso, del nome, indirizzo e numero telefonico diventano molto flebili. Era l’ora nella quale un uomo trema, alza il bavero del suo cappotto, e pensa, “Sono un viandante. Non ho una casa”. I due protagonisti, in tutto il libro, sono angosciati per l’avanzare del nazismo inAustria ma in questo brano, in quella notte, Isherwood cambia registro, apre la scrittura a un senso di spazio e di presenza che per me sono due aspetti fondamentali di santosha, che forse non è tanto l’essere contenti quanto essere, essere pienamente, il che porta automaticamente a uno stato di coscienza aperto, libero, privo di angustie e perciò felice, nel senso in cui si dice “fu un momento felice”, un momento di consapevolezza.

Non mi stupii quindi di scoprire poi che Isherwood era discepolo di Swami Prabhavananda dell’ordine di Sri Ramakrishna fondatore della Vedanta Society of Southen California e che aveva scritto libri meravigliosi sulla ricerca spirituale, che lessi, come Un uomo solo, Incontro al fiume, Il mio guru e aveva co-tradotto con il suo guru per la prima volta in inglese la Bhagad gita nonché Ramakrishna e i suoi discepoli, oltre a molto altro.

Aprirsi a sé stessi e al mondo con gioia

La scrittura rivela e comunica il grado di “santosha” di un autore.  Quelli bravi, penso ad esempio a J.M. Cotze, illuminano con il loro rigore intellettuale (come J.S. Bach fa con la musica) ma alcuni vanno più in là, ci fanno partecipi di una appagata, consapevole apertura al mondo-vita.

Clarice Lispector, considerata la migliore voce della letteratura brasiliana del Novecento, nei suoi libri regala questi momenti di rivelazione anche se per altro affermò: “Ciò che sento non è traducibile. Io mi esprimo meglio con il silenzio”. In un suo libro, non ricordo quale, cito a memoria, scrive qualcosa come: era domenica, suono di campane, faceva caldo e la fontana zampillava come sempre, sembrava noia, era felicità.  Dicendo, in una sola frase risuonante, che senza presenza mentale è impossibile provare santosha; una mente affastellata da ricordi, aspettative e pretese nei confronti della vita impedisce di percepire perfino la felicità che sta a portata di mano.

Ryokan, monaco zen e eremita giapponese, grande poeta, scrive in una sua poesia:

Primo giorno di primavera- cielo blu, sole splendente,

Ogni cosa sta diventando fresca e verde.

Portando la mia ciotola della elemosina, cammino lentamente nel villaggio.

I bambini, sorpresi di vedermi,

gioiosamente mi circondano, fanno sì che

il mio giro di elemosina si fermi alla porta del tempio.

Metto la mia ciotola sopra una roccia bianca e

Appendo il mio sacco a un ramo.

Qui giochiamo con l’erba selvatica e tiro una palla,

Per un po’, io gioco a prenderla mentre i bambini cantano;

Poi è il mio turno.

Giocando così, qui e la, ho dimenticato il tempo.

I passanti mi guardano e ridono di me, chiedendo:

“Quale è la ragione di questa follia?”

Non rispondo, faccio solo un profondo inchino,

Anche se rispondessi, non capirebbero.

Guardate attorno! Non c’è niente oltre a questo.

Per Ryokan vivere è essere sé stessi, pienamente, nel momento presente. Quando dice “Guardate attorno! Non c’è niente oltre a questo” suggerisce che la maggior parte del tempo, per mancanza di presenza mentale, non vediamo l’opportunità di gioia che abbiamo di fronte e la possibilità di essere autentici.

Nella scrittura, come in Ryokan, santosha si rivela spesso con una esemplare semplicità ma come dice ancora la Lispector: “Che nessuno si illuda: si raggiunge la semplicità solo dopo un lungo lavoro”. E così come per trovare santosha nella scrittura serve liberarsi dai manierismi e affidarsi alla specificità della propria ricerca e del proprio sentire, così nella vita per provare questa benedetta contentezza è necessario liberarsi, ecco il valore della pratica spirituale, della pesantezza dei pensieri inutili: rimasugli di karma, scarsa autostima, celati sensi di colpa o di inadeguatezza, stupido orgoglio, ossequio acritico alle norme sociali. Serve sentirsi leggeri, liberi, anche di giocare, come Ryokan. Santosha è un’attitudine positiva e calorosa verso sé stessi e gli altri, è equanimità, è benevolenza, è soddisfazione di sé. Arriva spontaneamente, non si può decidere, è uno stato di coscienza non una volizione. E’ il risultato, verrebbe da dire scontato, di un comportamento relazionale/sociale etico e della pulizia operata con saucha nel corpo, parole pensieri, comportamento.

Sconfiggendo la paura

Il santo yogi e poeta medievale tibetano Milarepa che visse da eremita in una caverna, tra il Nepal e il Tibet, nelle condizioni più dure, terrificanti, e nella più completa solitudine, esemplifica nei suoi canti la gioia che deriva dal comportamento etico e dal cammino spirituale.  Cito alcune strofe del VI canto. 2)

Poiché tutto ciò che faccio è conforme al dharma, sono felice …

Poiché il pensiero della morte non mi fa paura, sono felice;

Avendo conquistato le migliori condizioni

Per la pratica del Dharma, sono felice;

Avendo cessato di compiere azioni malvagie e avendo smesso di peccare spesso, sono felice.

Percorrendo il sentiero dei meriti, sono felice,

Divorziato dall’odio e dal pregiudizio, sono felice…

Assorto nella quiete e nell’equilibrio mentale, sono felice,

Usando la mente per osservare la mente, sono felice;

Senza speranza e senza paura, sono felice…

In un altro suo canto risponde così a dei novizi che trovano le sue condizioni materiali e il suo totale isolamento terribili:

E’ in questo posto così solitario

Che io, lo yogi Milarepa

Sono pieno di gioia nella Chiara Luce della Realizzazione del Vuoto.

La sua felicità non dipende dalle condizioni, ma dalla realizzazione della mente non duale, che paragona a una chiara luce, uno stato di coscienza di completa apertura e libertà.3 Milarepa gode della assoluta equanimità.  Circostanze felici o tristi per lui sono uguali, perché permettono comunque l’inesauribile manifestazione della mente illuminata. La sua è una gioia trascendente, una gioia che trascende la paura. 3)

Riporto un commento al suo canto del maestro buddista Sangharakshita. 4)

 “Non è che Milarepa sia felice nonostante il suo isolamento. Lui è felice in quello. Non sta tentando di attaccarsi alla propria gioia, di fatto, la lascia andare. Non sta facendo del suo meglio per essere positivo in una situazione difficile, lui vede la situazione in termini positivi. E’ felice di essere senza nessun compagno nonostante offra la sua felicità al benessere di tutti gli esseri. Nelle remote montagne del suo eremo Milarepa rinuncia all’ attaccamento alla comunità umana, alla proprietà, a ogni senso di sé separato. E lo fa non per l’amore di una esistenza miserabile fatta di deprivazioni, ma per godere con maggiore felicità della piena beatitudine della Chiara Luce del Vuoto”. (pos 909 )

Per noi, che santi non siamo, che probabilmente proveremo santosha solo a sprazzi, che abbiamo ancora tanta pulizia interiore da fare con saucha, Milarepa (come Ryokan) è davvero importante perché ci mostra e ci ricorda che la vita spirituale è intesa a portare gioia e che se non la troviamo via via di più nel nostro cammino significa che qualcosa non va; forse seguiamo un insegnamento che non è adatta a noi o lo seguiamo solo per un errato senso del dovere. Santosha è la prova del nove. Ci invita a coltivare un essere nel mondo in piena consapevolezza e apertura del cuore, evitando un misero “comportarsi bene” basato sulla auto-repressione che impedisce la vera gioia. Perciò concludo, non potrei altrimenti, questo brevissimo rimando a testi letterari che mi ricordano santosha, con qualche verso di Song of a Yogi’s Joy “la canzone della gioia dello yogi” di Milarepa, e nel leggere i versi vi invito ad immaginarlo cantarli radioso per tutti noi, oltrepassando i secoli, dall’alto del suo eremo.

Più grande lo stress e i tormenti

Piu uno può essere allegro e brioso.

Che felicità non sentire nessun disturbo o malattia;

Che felicità sentire che la gioia e la sofferenza sono la stessa cosa;

Che felicità muovere il corpo

Con il potere risvegliato dallo yoga.

Saltare e correre, danzare e fare dei balzi, è ancora più gioioso.

Che felicità intonare una canzone vittoriosa,

Che felicità cantare e far risuonare la voce

Ancora più felice di parlare e cantare a squarciagola.

Felice nella mente, potente e fiducioso,

Entrato nel regno della Totalità

note

1)Ryokan, One Robe, One Bowl: the Zen Poetry of Ryokan, trans John Stevens, Weatherhill, New York and Tokyo, 1977, p. 46, traduzione in italiano di Emina Cevro Vukovic.

3 Nel buddismo la mancanza di paura abhaya è considerata uno dei frutti più alti del cammino spirituale.

4) Sangharakshita, Yogi’s joy , Windhorse Pubblication, 2006, Cambridge, un commento a tre canzoni di Milarepa, traduzione Emina Cevro Vukovic

5) Ripreso da Paramananda, Deeper Beauty; Buddidhist Reflection on Everyday Life, Windhorse Pubblications, Cambridge, 2001, traduzione di Emina Cevro Vukovic